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Heidegger e i Quaderni neri
A cura di Marco Baldino




Exitus, esilio, salvezza.
Per un’altra lettura dei Quaderni Neri

di Guido Cavalli


1° aprile 2016


Dobbiamo tornare completamente indietro nell’accadere fondamentale —
se dobbiamo conquistarci combattendo un grande tramonto [1]

1.
In pochi mesi il dibattito sui Quaderni Neri di Heidegger si è ristretto a una questione soltanto: il rapporto tra il filosofo e il nazionalsocialismo, e ancor più nello specifico sulla componente antisemita di quell’ideologia, e polarizzato tra posizioni così distanti da impedire, di fatto, lo svolgersi di un dibattito vero.

Da una parte, infatti, sono schierati una nutrita schiera di anti heideggeriani che credono di aver trovato nei Quaderni le prove d’una colpa inemendabile, tale da sfigurare tutto il suo pensiero. Dall’altra i suoi difensori, che unicamente nel tentativo di scagionarlo da quella, si sono ritrovati ben presto su posizioni direi più heideggeriane di Heidegger, ovvero a negare il senso e le implicazioni di ciò che nei Quaderni è scritto.

Entrambe le posizioni mi sembrano strumentali ad un giudizio sullo statuto del pensiero heideggeriano, che però non è un fine in sé, ma un tentativo di comprensione di altro da sé. E mentre i primi brandiscono le affermazioni più sconvenienti dei Quaderni abbozzandone solo superficialmente la relazione con il corpus del pensiero heideggeriano, i secondi tentano di espungerle e marginalizzarle da quello.

Certo, censurare per motivi accidentali e talvolta particolari un pensiero di tale portata, sarebbe gravissimo. Dunque è doveroso domandarsi, per esempio, per quale ragione un dibattito pubblico e una comunità accademica che non hanno mai dedicato particolare attenzione alla questione ebraica — intesa in tutta la sua complessità storica: la complessità della radice biblica della nostra identità e dell’orizzonte escatologico della nostra attesa di salvezza — né approfondito il tema dell’antisemitismo se non, a intermittenza, come mera variante dell’intolleranza, del discrimine, della violenza politica, adesso all’improvviso facciano dell’antisemitismo heideggeriano qualcosa di ineludibile.

Appare legittimo il sospetto che la querelle sui Quaderni sia stata per molti l’alibi per chiudere i conti, attraverso un argomento irreplicabile, e bandire un pensiero sempre meno potabile nello spazio del contemporaneo.

Ma il tema del nostro rapporto — negato — con il passato, il tema del nostro rapporto — impotente — con la tecnica, l’utopia — fallita — dell’umanismo autodeterminato e delle sue soggettività — diritto, libertà, individuo: questi sono temi che il pensiero heideggeriano pone con una radicalità ancora senza pari, e che non sono all’ordine del giorno del dibattito né pubblico né accademico perché molto più attuali e necessari di quanto quelli riescano ad essere oggi.


2.
Impugnare le prove della compromissione di Heidegger con il nazionalsocialismo, e anche con i suoi tratti antisemiti, per poi rovesciare meccanicamente questo giudizio sul suo pensiero è carente da qualsiasi punto di vista: ermeneutico, filologico, filosofico e morale.

Tuttavia, i Quaderni spostano, anche se non stravolgono, l’asse del pensiero heideggeriano, e analogamente strumentale alla difesa dello statuto eccezionale — nel senso di una quasi assoluta autoreferenzialità — di cui esso gode — e en passant lo status particolare degli heideggeriani che da quello discende — appare chi ha concentrato la sua disanima sul contenimento di tale questione, o sulla sua assimilazione a questioni meno spinose.

Ora, i Quaderni per la loro forma frammentaria e estemporanea toccano moltissimi temi, anzi probabilmente tutti i temi dell’opera heideggeriana, e dunque ridurre l’analisi a uno soltanto sembra scorretto. Ma in nessun’altra opera Heidegger affronta così direttamente il significato degli eventi storici a lui contingenti. E il nesso che qui si mostra tra il domandare più radicale e l’evento più abissale della nostra storia contemporanea, è imprescindibile e impossibile da ridimensionare. Quando poi attraverso il linguaggio di questo documento, in cui il lessico heideggeriano si contamina con le parole e le categorie del suo contemporaneo — non parlo solo della Judenfrage, ma degli innumerevoli passi in cui Heidegger parla della: gioventù tedesca e del compito di demolizione che l’attende, dell’educazione di una nuova stirpe, di popolo (tedesco) e di razza, della grandezza storica del popolo sotto la configurazione delle potenze dell’essere, di nazionalsocialismo spirituale, dell’affermazione della potenza dello stato come volontà del popolo (tedesco) ecc… — si percepisce così vividamente la prossimità tra l’uno e l’altro — che avvenivano allo stesso tempo, nello stesso luogo, sotto gli stessi occhi, con parole talvolta così — se pur abissalmente lontane — vicine, con pensieri talvolta così — ambiguamente — assonati, è inammissibile tacere l’inquietudine.

Certo, è vero che nei Quaderni Neri lo sforzo di Heidegger di dare al nazionalsocialismo un posto nella storia dell’essere scemano fino quasi a fermarsi alla fine degli anni ’30. Tuttavia, se Heidegger si ricredette sugli esiti, non rimise mai in discussione la sua interpretazione del nazionalsocialismo come momento del destino tedesco — come “forma preliminare di un grande futuro del popolo (tedesco)” [2] — e come momento del tramonto metafisico occidentale. E le critiche che nei passi degli anni ’40 Heidegger arriva a muovere al nazionalsocialismo, rimangono rivolte a ciò che il nazionalsocialismo si è rivelato rispetto alla sua possibilità storica, a quel che il nazionalsocialismo non ha fatto rispetto a ciò che avrebbe dovuto fare, in cosa ha fallito rispetto a ciò che avrebbe dovuto essere. Attraverso la sua personale esperienza, Heidegger arriva a dichiarare che il nazionalsocialismo non è stato all’altezza del proprio compito di salvezza del popolo tedesco. Che ha tradito il popolo tedesco: ma essere vittime del tradimento di qualcuno o essere colpevoli di averlo, anche in un ristretto ambito, giustificato e avvallato, sono assunzioni di responsabilità ben diverse. Rimane, implicitamente, confermato ancora il senso storico di una forma inavverata di “nazionalsocialismo”. Rimane il punto, che lambisce un tabù a cui nessuno vuole accostarsi: che Heidegger ritenga la storia metafisica dell’Occidente come una parabola destinata al tramonto, all’annichilamento, e abbia riconosciuto in alcuni tratti del nazionalsocialismo un passaggio necessario di questa parabola. Questo è il punto che Heidegger non ha mai voluto né ritrattare, né confermare.

Nello specifico, le dimissioni dal rettorato non furono motivate dalla ricusazione del proprio programma “politico”, ma perché l’azione intrapresa attraverso l’assunzione di questa carica si era rivelata ai suoi occhi inutile, inascoltata, impari rispetto alla mediocrità da cui si vedeva circondato. Oggi, prospettare le dimissioni da parte di Heidegger come giudizio risolutivo nei confronti del nazionalsocialismo è strumentale tanto quanto proporne la nomina come atto di complicità con tutti i suoi crimini.

No, qui è evidente cosa è successo. Heidegger era talmente convinto della levatura eccezionale del suo pensiero, e dell’incomprensione di tale levatura da parte dei suoi contemporanei — ovvero, di essersi predisposto ad uno sguardo che oltrepassava la storicità — che ritenne di poter assolvere i propri errori come pieghe della storia, di non doverli sottoporre al giudizio di nessuno, temendo — esattamente come sta avvenendo ora — che essi avrebbero consentito di liquidare strumentalmente tutta la sua opera. Questo invece è quello che dobbiamo fare noi: riconoscere l’oltre del suo sguardo e al tempo stesso il qui non estemporaneo del suo coinvolgimento nella storia. Non estemporaneo: perché il legame tra nazionalsocialismo e antisemitismo non si appiana. Perché non è incidentale ma sostanziale. [3] È un legame che rientra nel dominio storico del “già deciso”, e si riverbera anche sul legame tra l’heideggeriano nazionalsocialismo “spirituale” e il suo cosiddetto antisemitismo “metafisico”, e lo costringe a esporsi, se vuole sopravvivere. [4] E se non tutto dei Quaderni Neri e non tutto del pensiero di Heidegger è esposto a questo tema — l’Olocausto come nodo che lega e trascina in sé nazismo e antisemitismo, storia del tramonto occidentale e storia della salvezza — allora noi dobbiamo tutto trascinarlo e tutto esporlo.

Per questo non è possibile cercare di disinnescare la questione dell’antisemitismo espungendola da quel contesto, per scioglierla all’interno della più generale critica heideggeriana alla storia della metafisica occidentale in quanto cristiana, ovvero giudaico-cristiana. Innanzitutto, da un punto di vista di correttezza interpretativa, perché nel pensiero di Heidegger la radice metafisica dell’oblio dell’essere inizia — indubitabilmente — con Platone. Altrimenti non capiremmo nulla dello sforzo heideggeriano di ricomprensione del cosiddetto pensiero presocratico. Anche la matrice metafisica del cristianesimo è per lui filosoficamente platonico-aristotelica. Ma ancor di più, rispetto alla storia dell’antisemitismo: perché quando si evoca la categoria, l’ambito, la radice “giudaico-cristiana” non si può assolutamente intendere “cristiana e ebraica”, ma — attenzione! — si deve intendere “cristiana dalle radici ebraiche”. Le due strade si sono divise! Chiedete a un ebreo se quella cristiana è la sua cultura e la sua storia! La convivenza non è stata certo pacifica. Assimilare il rapporto di Heidegger con il cristianesimo — il suo, nicciano — a quello con l’ebraismo, è fraintendere anche il rapporto tra quelli, che non è simmetrico. La storia di Israele non è la storia dell’Occidente, né dell’Europa, e rispetto a quelle è una storia di assimilazione — ovvero di nascondimento — o di esclusione e di persecuzione. È certamente proficuo e meritorio indagare le comune radici di queste due storie, ma quella ebraica è, rispetto a noi, storia di diaspora e di esilio — e oltre a ciò, storia di speranza. Presumere di poterne annettere immediatamente — senza prima indagarne il vincolo — la figura e il senso, è deformarla. Dunque, attenzione: il tentativo di evitare quella parola — antisemitismo — può portare con sé, anche involontariamente, il tentativo di negare che la questione ebraica è una questione ancora aperta, è ancora un bivio irrisolto della storia che ci siamo lasciati alle spalle, è una ferita della nostra storia, è un dialogo non concluso, anzi che chiama ancora le due parti ad incontrarsi in un giudizio che non si è ancora ricomposto.

Al contrario, bisogna cercare di entrare dentro questa doppia storia, molto più complessa e estesa dell’affaire Heidegger. Anzi. Sarebbe utile cogliere l’affaire Heidegger come rivelatore proprio di quel grumo, sedimentato in millenni, che nemmeno la forza del suo pensiero è riuscito a sciogliere, e persino lui ha assunto nella sua inintelligibilità. Per questo è necessario parlare di antisemitismo. Proprio perché Heidegger mostra di non conoscere il pensiero religioso e la cultura ebraica, ma poggia le sue affermazioni riguardo gli ebrei e l’ebraismo sugli stereotipi e sui pregiudizi della consuetudine antisemita, gli stessi utilizzati dall’ideologia nazionalsocialista, proprio per questo egli è autenticamente antisemita, ovvero dimostra di essere animato dal pregiudizio e da una lettura strumentale dell’ebraismo come malaessenza, come componente nocivo della storia (metafisica). Heidegger non parla degli ebrei e dell’ebraismo, non parla teologicamente della loro religione, filosoficamente del loro pensiero, storicamente della loro cultura, ma li individua negativamente quale concausa di un processo di decadenza, li accomuna in negativo e ne fa una categoria nociva della sua storia (metafisica) occidentale. Proprio nel contenuto ideologico della sua affermazioni egli è compiutamente antisemita.

Ma — paradossalmente, per coloro che nutrono un interesse non strumentale al legame della nostra storia con la storia ebraica — proprio perché Heidegger è il primo e più acuto pensatore della forma di questa storia, della forma del suo inizio, egli forse più di ogni altro si riavvicina a quel momento in cui l’Occidente ha dimenticato il senso biblico dell’alleanza con Dio, della salvezza del popolo di Israele — e in maniera quasi profetica arriva a parlarne come ciò che manca, e a rovesciare ciò che manca, ciò che si attende, ciò che deve avvenire, dal futuro buio, dal tramonto del compimento entificante della storia dell’essere, alla risalita verso il passato e verso la ricerca di un altro inizio.


3.
Uno dei temi che unificano, hanno sospinto e ancora spingono il pensiero di Heidegger sull’orlo delle questioni più dirimenti e necessarie del nostro tempo, è il pensiero della salvezza dalla storia, ovvero della forma storica del tempo e dei suoi possibili exitus. Entro questo pensiero Heidegger cerca di vedere il destino storico dell’Occidente — e del suo popolo in particolare, il popolo tedesco — e lo fa, come i Quaderni ci hanno rivelato, a partire dalla temperie dell’ora che sta vivendo: ovvero, negli anni ’30 cercando di pensare il senso storico del nazionalsocialismo e poi del suo fallimento, subendone in parte l’influenza e la suggestione, lasciandosi irretire da parte della sua retorica, per esempio dai più grevi stereotipi della propaganda antisemita, e infine, dopo il ’45, così come fece la quasi totalità dei tedeschi, riponendo nel non detto, nell’inesponibile al giudizio della coscienza pubblica qualsiasi valutazione su ciò che era stato e su ciò che si era stati all’epoca del Terzo Reich.

Heidegger qui si rivela, innanzitutto, umanamente, non come un totem o come l’incarnazione pura dello spirito filosofico, di cui sarebbe eretico oppure liberatorio supporre debolezze, contraddizioni o colpe. Ma al tempo stesso non è l’antisemitismo esteriore, quello degli stereotipi, ciò che si rivela fondamentale cogliere. O meglio: l’antisemitismo heideggeriano è stereotipato, superficiale, proprio perché lo stereotipo antisemita è il guscio inscalfito del seme antisemita, radicato in tutta la storia occidentale. Heidegger mostra di assumere in sé sia l’esteriorità dello stereotipo — nella sua ricostruzione dell’ebraismo come emblema della macchinazione — sia la sua essenza — perché ritenne che l’exitus dalla storia non potesse che essere la riuscita o il fallimento dell’epoca che da quella dell’alleanza biblica si è sospesa e distaccata — persino quando incarnata dalla follia nazionalsocialista come momento del suo destino tramontante.

Ma se questo era il suo pensiero, cosa avrebbe potuto dire, allora, Heidegger nel ’45? Che il nazionalsocialismo non era stato abbastanza radicale? Che non aveva saputo portare fino in fondo la possibilità storica di annichilamento delle fondamenta metafisiche dell’Occidente a cui era stato chiamato? Ma questo discorso, impossibile da pronunciare, ecco come ne rivela implicitamente un altro, quello della colpa metafisica, opera di quelle forze che incrinarono il pensiero originario e lo tradirono — la più antica e profonda della quali è la religione biblica.

Forse la più significativa e densa frase dei Quaderni, allora, non è affatto una delle famigerate 20 che semplicemente ricollocano lo stereotipo ebraico all’interno della storia e della topografia della metafisica, ma piuttosto questa, scritta ancora nel 1931, che mostra quando e come quella storia pensa la necessità di sfregiare se stessa, e dunque di pensare quel male e di decidersi ad amputarlo:
Dobbiamo noi oggi alla fine smetterla con il filosofare — perché il popolo e la razza non sono più all’altezza, e la sua forza ormai in tal modo solamente si consuma, ed è ormai degradata all’impotenza?
O invece questa interruzione non è forse necessaria, perché già da tempo non vi è alcun accadere?
E così ci si rifugia nella fede o in una qualche selvaggia cecità, si tratti pure della razionalizzazione della tecnicizzazione.
O ancora l’interruzione deve appunto essere compiuta come l’inizio — così che questo smettere debba diventare un più autentico accadere e un estremo sforzo.
Che cos’è che però viene interrotto e concluso? Solo quel procedere povero d’inizio della storia della “filosofia” successiva ai greci. La demolizione di una “interruzione”.
Cosicché questa interruzione si trasformi nello schiudersi dell’inizio, nello stesso ricominciamento. La grandezza del tramonto sarebbe raggiunta — non come un disvalore, bensì come l’affermare e il perseverare nel compimento più intimo ed estremo del tedesco. [5]
O non si riesce a leggere in queste parole perché Heidegger poi aderì al nazismo? E perché il nazismo fu per Heidegger l’illusione di una demolizione, di una distruzione, dell’interruzione necessaria di un “procedere povero d’inizio”, l’accesso febbrile di un corpo che in preda al delirio della fede (questa volta sì, ebraico-cristiana) o di una qualche “selvaggia cecità” o della hybris della tecnicizzazione, purifica se stesso? Ovvero, infine, che il nazismo per Heidegger fu un momento del rifiuto della forma biblica della storia come esilio — speranza e disperazione [6] — per l’affermazione della storia come ricerca dell’altro inizio?

Ecco, questo è il passaggio che bisogna pensare, interrogare, capire. Il punto in cui il pensiero di Heidegger tocca il vincolo della nostra doppia storia — dell’esilio e della salvezza — ovvero il legame tra la storia che abbiamo sotto agli occhi — l’oblio dell’essere — e la storia dimenticata — la storia della salvezza — dove una inizia a mancare e l’altra a salire, e poi la prima tramonta nell’oblio e l’altra continua a durare come prova. [7]

C’è qualcosa di abissale che qui, nei Quaderni, Heidegger ci rivela, e che sarebbe necessario approfondire tornando prima a leggere gli altri luoghi principali del corpus del suo pensiero, ma illuminati da nuovi accenti, e poi accostarlo ad altre voci: Buber, Rosenzweig, Jonas, Anders, Weil, Fackenheim, Moltmann e tante altre ancora… È qualcosa che Heidegger tocca con il pensiero, ma oscuramente, come un profilo toccato dalle mani di un cieco. È la nostra radice biblica, la forma della storia come esilio, come “speranza che passa attraverso gli abissi dell’Egitto e di Babilonia, della notte dei Getsemani, della croce, di Auschwitz, di ogni oscurità e di ogni corrompimento, fino all’Apocalisse”. [8] Una forma che Heidegger rifiuta. Perché rifiuta lo sradicamento dell’oggi come destino e lo pensa come tradimento del destino, da oltrepassare nel tramonto, nel compimento. In questa forma cieca Heidegger pensa al contempo sia la radice comune, il vincolo, sia la differenza, la duplicità.

Il destino di auto-annichilamento che Heidegger prescrive agli ebrei, infatti, nel suo pensiero non è proprio degli ebrei, ma è inscritto nell’orizzonte metafisico. All’interno di quest’orizzonte, anzi, quello che Heidegger scrive degli ebrei, il loro doppio legame con il destino di annichilamento della storia metafisica, come causa e come vittime, lo scrive analogamente anche della Germania. [9] Ebrei e tedeschi — ma dovremmo dire Israele e Occidente — sono in questa figura consimili, ovvero vincolati al destino dell’excursus metafisico, fino alla possibilità del proprio annichilamento — con la fondamentale differenza, certo, che mentre per i tedeschi Heidegger considera la possibilità come nobile sacrificio, nel caso degli ebrei si tratta di un contrappasso per ciò che hanno agito.

La forma della storia come esilio è la nostra radice biblica. Che non vediamo più, che abbiamo dimenticato. Ed ora che, dispersi in questa storia, la possibilità di conservare la fedeltà — la speranza — è rimasto tempo vuoto [10] e senza senso, però risuona ancora la sua eco, e dell'esilio ci sembra disperatamente necessario perseguire un exitus — un altro inizio.
La rottura con la storia dell’Occidente determinato metafisicamente, l’altro inizio della storia dell’Essere, deve restare per lungo tempo e necessariamente invisibile, perché si compie nella maniera di un domandare (della conquista tramite la domanda di ciò che è più degno di domande), e perché fa di questo domandare il fondamento dell’esser-ci, nel qual l’uomo torna indietro a porsi nell’appartenenza all’essere. Ciò che è più degno di domande però è, per il cristianesimo culturale e per l’anticristianità in egual misura, ciò che è più odiato. [11]

[1] M. Heidegger, Quaderni neri. 1931-1938, Bompiani, Milano 2016, p. 227.
[2] Ivi, p. 199.
[3] E.L. Fackenheim, Tiqqun – Riparare il mondo, Medusa, Milano 2010, pp. 172 e segg., e pp. 191 e segg.
[4] Ivi, p. 50.
[5] M. Heidegger, Quaderni neri. 1931-1938, cit., pp. 88-89.
[6] Y.H. Yerushalmi, Verso una storia della speranza ebraica, Giuntina, Firenze 2016, p. 33.
[7] Ch. Péguy, La nostra giovinezza, Editrice Studium, Roma 1947, p. 76.
[8] S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, Adelphi, Milano 1990, p. 128.
[9] M. Heidegger, Quaderni neri. 1931-1938, cit., p. 21 e p. 89.
[10] H.U. von Balthasar, Dialogo solitario. Martin Buber e il cristianesimo, Jaca Book, Milano 2006, p.113.
[11] M. Heidegger, Quaderni Neri. 1938-1939, Bompiani, Milano 2016, p. 455.



Menorah, XIX secolo, Wolfson Jewish Art Museum, Gerusalemme




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